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venerdì 3 agosto 2018

GIUSEPPE SORAVIA "CAPOTO", UNO SCRITTORE RITROVATO



Giuseppe Soravia "Capoto", oriundo di Venas di Cadore, era figlio di Cesare e di Rosa Dall'Asta "dei Mariane".
Nacque il 13 aprile 1902 a Monaco di Baviera e morì il 25 settembre 1955 a Verona. Egli era stato negli anni 30 del secolo scorso - come il padre e i fratelli - importatore di frutta e verdura in Germania. Durante gli anni della guerra, a partire dal 1939 venne a vivere con la famiglia in Italia, prima a Verona, poi a Venas.
Nel 1948 ritornò in Germania per riprendere il suo commercio al Grossmarkt di Essen. In quegli anni del dopoguerra, lontano dalla famiglia, che lo raggiunse solo nel 1951, con gli affari che fiorivano bene, incominciò a sperimentare le sue ambizioni letterarie e a scrivere per diletto versi e prosa, novelle e racconti con tanti riferimenti dialettali cadorini e con un umorismo e una fantasia fuori del comune.
Purtroppo rimase un autore sfortunato. Dalla Germania non riuscí a trovare un editore in Italia. In piú gli affari gli andarono male e a soli 52 anni si ammalò gravemente e morí a Verona, dove aveva sperato di ritrovare la salute.
Dopo piú di 60 anni sono stati ora ritrovati sorprendenti manoscritti, frammenti di un grande (ironico) romanzo storico con il titolo "L'Arca di Noè", le cui parti qui presentati: "LA PROFEZIA" figura come "Capitolo primo", e "UNO SCHERZO MALIGNO..." figura come "Capitolo diciottesimo".  "L'ABITO BLU" è invece un racconto a parte, già pubblicato in questo Blog nel 2010. Il merito del fortunato ritrovamento dei seppur frammentari manoscritti spetta all'omonimo nipote dell'autore, Giuseppe (Beppino) Soravia, figlio della sorella di Giuseppe sr., Maria. Questo Beppino è un grande (ex) navigatore a vela dei mari del mondo che in merito agli scritti dello zio dice: "Io, leggendo l'una o l'altra pagina, ho già versato diversi contenitori di lacrime. Lo strano è che più ridi, più piangi."
 
(Note biografiche redatte dalla figlia di Giuseppe Soravia, Vittoria)



Dätzingen/Venas, 4 agosto 2018




L'ARCA DI NOÈ (storia romanzata)
di Giuseppe Soravia "Capoto"

 
Cap. I
LA PROFEZIA
  
Da millenni la città di Atlanta non esiste più. Ma mi piace di parlarne qui, al presente, come se ella fosse ancor lí, viva e palpitante, doa prima del Diluvio Universale. Perché io la vedo tutt’ora con strana nitidezza e un senso di profondo rammarico.“ G.S.
 
Su quel braccio del lago Cumano, o di Cuma, che s’incurva in ansa ampia e sinuosa, a guisa d‘un falcetto da contadino, sulla terra ondulata in tenui colli ove un tempo Olomor e Omer pascolarono le candide agnella e coltivarono i pomidori, surge, onusta di verde, candida di marmi e rutilante d’oro, la città di Atlanta, la Capitale del mondo perduto.
Atlanta è all’apice della sua potenza e splendore. Essa appare nel suo Genio e nelle sue pietre sublimi, eterna, incrollabile (ohimè!). Le Arti e le Scienze vi fioriscono rigogliose: Si fanno statue e colonne perfettissime; si dipingono quadri, pareti e soffitti; si compongono poemi immortali; le uova si cuociono con gli specchi ustorii; le aste scolastiche si fanno col timbro di gomma. Pensate!
Gli araldi imperiali annunciano per strade e per piazze ognor nuove vittorie e conquiste: La Rutenia, il Portogallo, l’Asininia, il Comelico Inferiore, la Linguadoppia, il Pondo Pendente, la Puttania e il Polesine cadono come pesche mature - nel volger d’un decennio appena - sotto il dominio della città fatale. Incredibile!
= Annunciamo al popolo Atlantico e al mondo, che gli eserciti di Bressania sono sconfitti: Le invitte legioni di Fulvio Legnoso entrano trionfanti alla Genzianella! =

...A mancina appare la città vasta e rilucente nell’amoroso amplesso lacustre; i ponti immensi, a raggera, paion le zampe d’un ragno mostruoso; i Palazzi Imperiali al centro, sfolgorano d’oro e di vividissimi colori; i monumentali templi, nivei di greco marmo, sembran favolosi balocchi; dal mare di verde i cipressi eccelsi, perfetti, come dardi scagliati nell’azzurro, i pini ombrellati punteggiano l’insieme di glauche chiazze e di struggente ruggine; il palissandro vergine dispensa pennellate di prelatizia porpora… E lontano lontano, sin dove l’occhio può giungere, e prati di smeraldo, e campi regolari coltivati a dovere, e bianche casette, e strade diritte e piene di vita… Il quadro dice di ricchezza e di raggiunta maturanza civile.

                                                                   o o o o

Ma quella mattina, malgrado la pulsante vitalità, nessun rumore, non un grido, un richiamo, un canto giungeva sin lassù. Un cupo silenzio incombeva sulle cose; nell’aria immota v’era un senso d’oppressione, come un presagio cattivo. Solo il grillo, tratto tratto, faceva udire il suo canto argentino e vacuo: Gri… gri… gri…
Era la mattina del primo di gennaio dell’anno 13 a. D.
Al Muro delle Profezie s’appoggiavano due severi personaggi, due venerandi vecchi in bianco camice, le lunghe barbe pettinate con cura: due Profeti.
I loro sguardi si spingevano ansiosi verso occidente, dove s’era andata formando una grossa nuvola oscura, quasi nera. Il paesaggio, privato del sole, aveva assunto un aspetto cupo, serale.
I due Profeti eran scossi da lieve tremore.
Parlò alfine il vecchio Erasmo:
„Attendo da chi più di me è vecchio d’anni e d’esperienze, la parola vera ohimè! su la trista nube. Corto è l’occhio mio ed inesperto.“
Si riscosse il vecchio Dato; e sollevando lentamente il braccio, coll’indice disteso si dette a segnare strani segni aggrovigliati nell’aria, quindi a voce bassa, monotona: „La nube nera… i cirri bianchi: dodici… la congiunzione de la Paramussa con… Ah!...“ Tacque e si coperse il volto colle mani scarne. „Il Presagio! Il Presagio!“ mormorò ancora con voce spenta. Levate quindi le braccia al cielo, gli occhi che gettavan fiamme, gridò per tre volte:
„Acqua!...Acqua!... Acqua!...“
Il paesaggio s’era fatto oscuro come la coscienza degli uomini.
Il vecchio Erasmo taceva a testa china. Tornò a parlare con lieve voce incerta:
„Alla veggenza tua m’inchino, che pur m’umilia e m’attrista… ch’io non scorger possi che pioggerella innocua. Sei ben più saggio di me, o vecchio Dato.“
„Ti farai, Erasmo, ti farai.“
Erasmo chinò di nuovo il capo pensoso; poi con scatto improvviso:
„Pur io intendo di dire di saggezza una parola!“
„Parla, Erasmo, t’ascolto. Tu pure a volte azzecchi…“
Disse allora il vecchio Erasmo tutto animato in volto:
„Stimo in quest’ora saggio e preveggente, il pronto acquisto d’un ombrèl… N’ho visto di belli al Bazar d’Eusebio e il costo è buono. Convien che ci affrettiam, pria che il furbo saccia…“
Il vecchio Dato si riscosse bruscamente:
„Si, si: convien che ci affrettiam!“
E i due profeti s’allontanarono dondolando gravemente il testone. …………………………………………..
„Erasmo, amico mio!...“
„Dimmi,“
„Erasmo!...“
„Parla,vecchio Dato.“
„Siamo sempre stati amici…“
„Questo è vero.“
„Non t’ho mai lesinato il fior di mia sapienza, e…“
„Questo è anche vero. Da te ho appreso a discernere il Bene dal Mal… Pria mi fea grande confusione: Ora so.“
„Erasmo!...“
„Parla amico.“
„Tu sai come van le cose della vita: Or su, or giù… Già!... L’aria di quest’oggi m’ha messo in corpo strani fermenti, strane voglie…“
„Oh!“
„Desideri arcani…“
„Ah!“
„Fremiti.“
„Oh, qual mai nuova, vecchio Dato!“
„Nuova no, Erasmo; nuova no… Intermittenze, fiamme che ritornano, braci occulte…“
„Braci?!...“
„Fuoco…Lava!“
„Per Dinci!“
„Erasmo!...“
„Vecchio Dato!“
„Erasmo!...“
„Dí!“
„Erasmo, amico mio!...“
„Parla, per la Madonna!“
„Erasmo… tu sai… l’amicizia… la riconoscenza…“
„Beh?!“
„Erasmo!...“
„?? !!“
„Te ´l dicevo poc’anzi… Acque basse…“
„Insomma!!“
„Erasmo… Pre… pre… prestami dieci lire.“
Nel cielo la nube nera non c’era più.


o o o o o 

Le cronache di quei tempi riferivano di due severi Profeti, che la notte del primo gennaio dell’anno 13 a.D., dopo aver causato scandalo grande, s’eran bisticciati e presi a ombrellate sulla pubblica via, davanti a un palazzo con una grande „C“ vermiglia sopra il portone a volta. 



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Cap. XVIII 

UNO SCHERZO MALIGNO
E
TORNA ALLA RIBALTA IL PORCELLO DI PORTOGRUARO

  La cosa suonava tanto strana, tanto fuor del comune, che Noè lì per lì fu preso dal vago sospetto di una burla ai suoi danni. Ricorreva il primo d'aprile, infatti, e le costumanze screanzate per la nefasta giornata, erano allora le stesse d'oggidì.
Fu lo Struzzo Imbronciato a portar la novità, precipitandosi nella sala nautica come uno spiritato. Noè se ne stava con Ezzechiele[1], intento ad alcuni calcoli sublimi sulla longitudine approssimata.
- Hanno annodato il Pitón delle Caverne! - gridò con voce rotta dall'emozione.
- Che cosa hanno annodato?! - chiese Noè spalancando tanto d'occhi.
- II Pitón delle Caverne! -
Ezzechiele sollevò lo sguardo dal foglio sul quale avea disegnato una teoria di segni intersecanti a guisa di croci di San Sebastiano, (le prove del nove delle moltiplicazioni di Noè) e chiese anche lui:
- Annodato?! -
- Si, annodato!... fa pena!. -
- Andiamo! - disse Noè alzandosi e abbottonandosi il colletto della giubba.
Laggiù in fondo, a prora, tutti gli animali s'eran raggruppati ed agitavano concitatamente le teste e le gambe pelose. L'Elefante Accorto, privilegiato, agitava comodamente la proboscide.
- Fate largo, bastardi! - Vociò Noè giungendo di corsa.
Allora gli si offerse agli occhi uno spettacolo terribile, raccapricciante. Il Pitón delle Caverne giaceva al suolo strettamente attorcigliato in un nodo spaventoso; piuttosto una serie di nodi complicati e diabolici, che ne facevano una informe massa traballante e sussultante. Dall'immane groviglio usciva appena la testa, orribile a vedersi, e dalla parte opposta, un pizzico di coda che batteva l'aria alla ricerca di un punto d'appoggio. Il poveretto, a rischio di scoppiare, faceva disperati sforzi per sciogliersi; le vertebre scricchiolavano, i suoi occhi eran rossi, infiammati, schizzanti dall'orbita; la bocca avea spalancata in un atroce sbadiglio, spaventevole.
- Por la Virgen del Pilàr! - esclamò Noè in ispagnolo, lingua che conosceva alla perfezione, e alla quale, qualche volta, amava di ricorrere.
- Ma chi diavolo può aver ridotto il Pitone in quello stato?! -
- E' un nodo gordiano, - diceva intanto uno che di nodi doveva intendersene certamente.
- Macché nodo Gordiano, perbacco! - ribatteva un altro, evidentemente preso dalla smania della contraddizione. - Per conto mio, è un nodo austro-ungarico.
- Austro-ungarico?!
- Si, si, austro-ungarico. - E lo ripeté con una strana convinzione.
- Va là, va là, va là... - fecero alcuni ironicamente, all'indirizzo del sapientone contraddittore.
- Parla come che te ga insegnà to mare! - saltò su a dire allora, uno delle parti di San Pietro in Gù. - Un gropo 'l xe,ostrega,un gropo... - E sorrise come solo san sorridere quelli delle sue parti felici ed ubertose.
L'Asino Sapiente ascoltava quella disputa con manifesto disprezzo e commiserazione.
- Nudus complexus! - sentenziò con perentorietà; e la discussione, dopo quella sentenza capitale, terminò. Ma quanti nemici non si creava l'Asino Sapiente colla sua pur bella erudizione. L'ultimo della lunga serie, proprio quel tale di San Pietro in Gù, permaloso e bisbetico per legge di atavismo.
Intanto il Pitón delle Caverne continuava nei suoi frenetici tentativi per uscir dalla stretta fatale, ma col risultato, ohimè, di stringere ancor di più le maglie di quel nodo diabolico. Dalla bocca che non poteva emettere alcun grido, usciva invece copiosa la bava e resti di cibo (gnocchi) provenienti dal lontano stomaco compresso. I suoi occhi dilatati dicevano ben chiaramente: - Aiuto!... soccorso!... muoio!... - Scena paurosa e straziante ad un tempo.
- Il dottore, subito! - comandò Noè.
Poco dopo giungeva il Tasso Predicatore col suo solito fare impacciato e interrogativo. Avea il camice imbrattato di sangue innocente, le maniche rimboccate all'uso dei macellai e dei chirurghi.
- Perbacco, perbacco! - esclamò avvicinandosi. - Un caso nuovo; mai vista una roba simile; un nodo fantastico. Solo esperte mani marinare... Magnifico... Laocoonte... verismo... analisi... -
- Non t'ho chiamato perché tu faccia qui sfoggio d'insolente erudizione, ma per portare il soccorso della scienza a questo povero infortunato! - lo interruppe Noè freddamente. E soggiunse con asprezza:
- Pelandrone, che non sei altro! -
Certo non era la prima volta che Noè manifestava la sua avversione al dottore strapazzone, con apprezzamenti pittoreschi ed espressivi, ma tutta questa animosità verso quel poveretto, non riusciamo agevolmente di spiegarcela nemmeno noi. Perché, voglia o non voglia, costui il suo dovere lo faceva, e si pensi, gratuitamente (era un dottore onorario), e proprio assassinato, non aveva ancor nessuno. Mah... misteri dell'animo umano.
Il Tasso si chinò sospirando ad osservare il Pitone negli occhi strabuzzati, indi gli applicò uno specchietto davanti alla bocca spalancata, per controllare la respirazione; lo palpeggiò qua e là lievemente, quindi disse, rimettendosi lo specchietto nel taschino: - Se non facciamo presto, costui scoppia come una bomba atomica! - Poi,con un gesto deciso e sicuro, gli versò nelle fauci il contenuto di una boccetta, una felice combinazione d'ammoniaca e d'acido prussico emulsionati. Il Pitone sussultò galvanizzato riuscendo ad emettere un grido straziante attraverso la gola strozzata.
- Ah,ah! - fece il Tasso, e sorrise soddisfatto.
- Ebbene?! - gli chiese Noè spazientito da tutti quegli armeggii che reputava inutili se non addirittura ciarlataneschi.
- Ecco... - rispose allora quel grande luminare della scienza, - io direi di tagliare. -
- Tagliare che cosa?! -
- Tagliare qua. - E indicava un punto del lunghissimo corpo, che grosso modo doveva corrispondere alla metà.
Noè lo guardava a bocca aperta col ciglio aggrottato.
- E poi chi lo riattacca, per tutti i Dèmoni dell'Inferno infernale!
- Io! - fece il Tasso con presunzione. - Io, perbacco! Peh!... Non é mica la prima volta che faccio di queste operazioni... -
- No! - esclamò Noè. - No, mi oppongo; non voglio, no, no; bisogna trovare un sistema meno sanguinario, meno feroce... - E intanto guardava ansioso all'intorno. - Vediamo... se provassimo a tirare, da una parte e dall'altra, con forza... proviamo... Sotto quattro volonterosi che abbiano muscoli buoni. -
Alcuni animali d'aspetto prestante, si fecero avanti; in testa l'Elefante Accorto, il quale, tutte le volte che si trattava di fare una buona azione, era sempre il più volonteroso di tutti. E... tira di qua, tira di là, il tremendo nodo anziché allentare si stringeva sempre di più. Perbacco! - Noè si sentiva prendere dall'orgasmo, dalla disperazione. - Perbacco,cosa facciamo Ezzechiele?! -
Ezzechiele da alcuni istanti s'avea presa la testa tra le mani, e s'era messo a pensare con grande intensità. - Lasciami pensare ancora un poco, - disse. - Forse ho trovato la soluzione; non l'ho ancora elaborata del tutto, ma ci son vicino; ancor qualche piccolo ritocco di dettaglio; tra qualche istante, aspetta... - E si rimise a pensare profondamente.
Intanto il Pitone s'era andato rassegnando alla sua sorte; non faceva più nessun moto, nessun tentativo. Dall'espressione degli occhi, traspariva chiaro il pentimento di tutti i suoi peccati, e che era già in rapporti spirituali col paradiso dei serpenti. Insomma, era più di là che di qua. Gli animali lo guardavan ora silenziosi in attesa della conclusione del dramma.
Noè si volse ancora ad Ezzechiele:
- Fuori l'idea, fuori presto... Il meschino sta per esalare il penultimo sospiro. -
- Ancora un poco - rispose Ezzechiele,sempre stringendosi la testa strettamente tra le mani. - Ancora alcuni momenti, abbi pazienza... -
Noè si rimise in attesa dondolando penosamente la testa. Ad un tratto si vide Ezzechiele alzare una mano in segno di trionfo; il suo volto raggiava di una luce geniale.
- Eureka!... - gridò stentoreo. Eureka!... - [2]
Ed avvenne il grande miracolo: Un secco ordine di Noè, alcuni che corron veloci verso le cucine, e ritornano poco dopo trasportando un grande barattolo d'olio d'oliva di Oneglia. Il Serpente venne quindi abbondantemente irrorato del benefico liquido. Allora il possente nodo, lentamente, quasi impercettibilmente, incominciò ad allentare la stretta poderosa; la coda entrava piano piano nel grande groviglio, la testa scompariva dall'altro lato. Poi tutta quella massa, come per incanto si sciolse, s'afflosciò, e giacque informe ed inanimata sulla coperta. - Manca solo la farina, e si può mettere a friggere in padella. - Disse il Gatto Soriano con feroce sarcasmo.
Un immenso applauso accolse quello straordinario salvamento. - Viva Ezzechiele! - si gridava, - viva Ezzechiele! - Il tal fanatico,che già conosciamo, approfittando dell'occasione propizia, gridò ancora: - Viva la Repubblica! - Ma anche stavolta, nessuno udì il grido fatidico che si perdette nel frastuono.
Il Tasso Predicatore era rimasto annichilito, un lampo sprezzante e cattivo nell'occhio glauco. - Maledetti! - esclamò tra i denti.
Ezzechiele s'inginocchiava intanto vicino al povero martoriato.
- Come ti senti? - gli chiese con accorata dolcezza.
Il Pitòn delle Caverne l'avvolse in uno sguardo d'amore e di infinita riconoscenza.
Ti debbo la vita! - mormorò con un filo di voce; stralunò quindi gli occhi, solitamente così ridanciani, e svenne. Ezzechiele s'asciugò una lacrima col risvolto del giubbone.
Alcuni volonterosi, allora, si caricarono il Serpente sulle spalle, così come fanno i marinai colle lunghe vele arrotolate, e s'avviarono verso l'infermeria. Il Tasso Predicatore seguiva il mesto corteo, a testa china, colle zampe dietro la schiena. - Maledetti! - brontolava ancora.
Noè intanto pensava che il fatto era gravissimo, e che bisognava castigare come si doveva, i colpevoli del misfatto. Ma bisognava scovarli, il che non era cosa facile. - Uno scherzo malvagio, per tutti i Demoni... senza precedenti nella Storia; uno scherzo che per poco non costava la vita di quel degno e stimato Serpente, perbacco! - Gli appariva chiaro ora, che il burlone, o piuttosto i burloni, avevano approfittato del sonno che il Pitone amava schiacciare tutte le volte che aveva fatto un pasto abbondante; il che capitava spesso, essendo egli amante della buona cucina. Quel giorno poi, c'erano stati i gnocchi alla casalpusterlenghese, e ogn'uno sa come sian pesanti; e per giunta il ghiottone s'era mangiato anche la razione della Pulce Asiatica, la quale non si sentiva tanto bene (mal di testa e sintomi di commozione viscerale; da qualche tempo la Pulce Asiatica non andava affatto bene colla salute). Il Serpente s'era quindi abbandonato ad un sonno particolarmente profondo e propizio; un sonno catalettico.
Noè ribolliva d'indignazione. - Per la Madonna, che razza di scherzi da fare! Ora li concio io per le feste, quei cialtroni! - Dardeggiò all'intorno uno sguardo severo. Gli animali stavan muti in attesa del temporale imminente.
- Chi è stato?! - tuonò con voce terribile. Nessuno rispose. - Chi è stato?! - ripeté con piú forza. Eguale silenzio perfetto. - Perbacco, ma questa si chiama omertà - Noè tremava tutto dalla stizza. - Chi è stato, per tutti i Dèmoni dell'Inferno infernale!... O me lo dite subito, - aggiunse, - o stasera vi lascio tutti senza frutta e vino! - La grave minaccia provocava un diffuso mormorio di protesta, ma nessuno fiatò. - Carramba! Mi sembra d'essere capitato nella Sicilia! -
Gli animali avevano assunto un atteggiamento svagato ed indifferente; era come se la cosa non li riguardasse. Alcuni guardavan le nuvole, altri si mordicchiavano la coda, altri ancora, ed erano purtroppo i più, s'andavan estraendo detriti dal naso, costumanza, questa, assai diffusa a quei tempi, specialmente tra le scolaresche.
- Qui non cavo un ragno dal buco, - pensò Noè. - Mi ci vuole un caprone espiatorio, ma non quello che ne porta il nome, non quello... Dopo l'incidente delle gambe è diventato troppo bizzoso; uno piú mansueto...- Intanto, coll'occhio socchiuso, andava alla ricerca del tipo adatto per l'esperimento coercitivo ed esemplare.
In prima fila, il Porcello di Portogruaro guardava Noè cogli onesti occhi spalancati. V'era in essi, un misto di timore, di ansia, ed anche purtroppo, un miserevole tentativo d'indifferenza. Sembrava la statua della colpevolezza. Cosa vuol dire le apparenze, delle volte. Noè si soffermò sull'infelice. - Ah, ah! - pensò. Gli si avvicinò guardandolo fisso.
- Vieni! - gli disse perentorio, ed eseguì col pollice un gesto neroniano.
- Iiiio?! - fece il tapino come don Abbondio. - Iiiio?! - ripeté con accento di stupore disperato.
- Si,tu... Vamos, vamos!... - E Noè s'incamminò verso la poppa. La povera vittima lo segui gettando occhiate imploranti all'ingiro, mentre gli animali gli facevan dei grandi gesti che, - guai a lui se avesse parlato! -
E scomparvero i due come inghiottiti oltre la porta del quadrato. Gli animali si riversarono in lenta ondata da quella parte. Il Canguro Casalingo mormorava in tono preoccupato al Formichiere delle Asturie:
- Se quello parla, siam rovinati! -
- Estamos fregados por la vida! - esclamò il Formichiere delle Asturie con un fremito nella voce.
Nel quadrato intanto si svolgeva una scena drammatica. Noè s'era seduto nella sua poltrona, ed avea accavallato una gamba sull'altra alla moda dei grandi britanni e irlandesi. Il Porcello di Portogruaro rimaneva in piedi dinnanzi a lui,in un atteggiamento facile da immaginare.
- Sputa! - disse Noè freddo e categorico.
- Io non so niente!... - rispose il Porcello con voce malferma e piagnucolosa. Seguì un breve silenzio greve e minaccioso.
- Amico... - seguitò l'inquisitore; - tu sei amante degli scherzi, delle burlette... Ciò m'induce a pensare... sì, dico... -
Il Porcello spalancò gli occhi in una espressione di grande terrore.
- No! - gridò, - no! non son stato io! - E v'era tanta bella sincerità in quell'accento disperato.
- Ah!... - fece Noè. - Dunque non sei stato... e chi é stato verbigrazia? Tu lo sai, non v'ha dubbio... -
- Io non so niente!... - esclamò ancora il Porcello.
Noè si studiava attentamente l'unghie della mano. Riprese a parlare con calma, freddo e inesorabile:
- Amico... veggo sul dorso tuo i segni di passate battiture... Se mi ripigliasse il vezzo... dico... per farti cantare... -
Il Porcello tremava convulsamente; il suo volto appariva stranamente e improvvisamente emaciato; sembrava invecchiato di due anni.
- No! - fece ancora. - No... io non so niente! -
Noè tirò un sospiro e riprese:
- Non lo sai... o piuttosto non vuoi dirlo? -
- Io... non so... io... non dico niente... io... -
- Ho capito: Non vuoi cantare! -
- Io sono innocente! -
- Non stento a crederlo, ma dovrò farti fustigare lo stesso. - Tacque un istante, indi aggiunse seccamente: - Te lo chiedo per l'ultima volta... Intendi di cantare, oppure preferisci... - Ed eseguì colla mano distesa l'eloquente gesto delle frustate.
Il Porcello rimase silenzioso. Perbacco, le battiture le aveva già esperimentate; sapeva ciò che volevan dire, e una certa esitazione era naturale e comprensibile.
- Ebbene?... - insistette Noè sorridendo bieco.
Il Porcello di Portogruaro ansimava sordamente; grosse gocce di sudore gli imperlavan la fronte; nei suoi occhi v'era disperazione e terrore.
- Ordunque... - fece ancora Noè con crudele sarcasmo.
- No!! - rispose alfine il Porcello con eroica decisione. Quel no straziante, sembrava cavato grondante da un vaso pien di lacrime. Il volto del nobile animale esprimeva una dolorosa rassegnazione, ma luceva anche di una ostinata determinazione, non disgiunta da una certa tal qual spavalderia orgogliosa.
Ora Noè lo guardava con stupore e con un malcelato senso di ammirazione; sotto alla mano che si grattava la punta del naso, andava mordicchiando un sorriso di intimo compiacimento. Quando si alzò, il suo atteggiamento era del tutto mutato. Si avvicinò al Porcello e gli pose una mano sul capo in tenera carezza paterna. Gli parlò piano, gravemente e con voce commossa:
- Oh, nobile Suino di Portogruaro! Odi la mia voce che l'emozione ha reso tremula e stanca: Ti sei comportato da eroe; perdonami le aspre parole di poc'anzi... - Noè non poté proseguire; la commozione lo soffocava. Poi riprese con sforzo: - Se tu m'avessi rivelato quei nomi, avresti sì evitato la frusta, ma avresti anche perduta per sempre la mia stima! Non t'avrei più guardato in faccia!... Ora vai, amico mio, e che Iddio ti accompagni! - E lo baciò sulla fronte.
Il Porcello si allontanò squassato dai singhiozzi, barcollando.
Quando apparve agli animali, nell'inquadro dell'uscio, una grande luce radiosa l'avvolse.

Giuseppe Soravia "Capoto"

NOTE
[1] Ezzechiele per Giuseppe Soravia è il  grande amico di Noè che nel futuro della storia diventerà il fondatore della seconda stirpe dell'umanità parallela a quella di Noè.
[2] E' ovvio che il famoso "Eureka„ di Archimede non fu che una copiatura. Chi l'avrebbe mai detto?! Un uomo cosi serio... eppure... (Nota dell'autore)





Quello che segue è invece un racconto di Giuseppe Soravia, già pubblicato nel 2010, e una poesia inedita:



L'ABITO BLU 


Baldo, il contadinotto, s'era svegliato quella mattina, animato da una fredda determinazione: Quel giorno non avrebbe lavorato; sarebbe andato invece a passeggiare nel bosco. Era questo il frutto di una lunga ponderazione. Da tanto tempo vi pensava: "Un giorno o l'altro mi metto in gala e vo' a spasso dall'alba al tramonto." Decisione grave per Baldo, il contadinotto, nato senza camicia e colla zappa in mano.

o o o



Era ancor notte quando scivolò fuor dal letto. E rimase là alquanto, ritto, fantasma grottesco nelle lunghe mutande di lana appena rattenute dalla presa asciutta dei fianchi. Si stropicciò energico le braccia e si lasciò andare ad un lungo sbadiglio sonoro. Accesa la candela sul canterano, si lavò la faccia e il collo come fosse giorno di festa. L'indecisione l'afferrò mentre si soffiava dal naso la schiuma del sapone. Perbacco! Stava per farla grossa davvero! Ma discacciò il molesto pensiero con rapido gesto della mano. "Alla fin fine non vado mica a rubar galline!" Quindi trasse dal cassettone odorante di naftalina, il bell'abito blu delle grandi occasioni, quello colle fodere di seta frusciante e col taschino posteriore per mettervi i soldi: un capolavoro dell'arte cesoria che non temeva confronti da quelle parti e che gli era costato un occhio della testa in un momento di follia spendereccia. Indossandolo, sperimentava quel senso di delizioso soffocamento che aveva provato le altre volte che l'aveva messo e che poteva enumerare tutte sulle dita d'una mano. Era stato infatti il giorno della festa del Santo Patrono, quindi alla Pasqua, il giorno di Natale, ed infine quando si era maritata sua sorella Gelsomina con Gerolamo, lo scarparo. E qui terminava l'elencazione. Dava così, volutamente, alla giornata che incominciava, un carattere, un'impronta di particolare solennità. Nell'abito blu si sentì improvvisamente nobilizzato, elevato. Tagliuzzò col temperino una scheggia di sapone e se la pose nel taschino della giacca.

o o o



Sbiancavano le stelle nel brivido dell'alba, quando Baldo, passato cauto l'uscio di casa, diresse i suoi passi svelti e furtivi alla volta del bosco ceduo. Il gallo in quel momento straziò il silenzio mattutino col suo canto beffardo e sgraziato. Baldo gli lanciò una maledizione. Per prima cosa si beò compiutamente alle arcane armonie della Natura intenta al risveglio: brusii, squittii, schianti, sospiri, mormorii, frulli, tuffi, ansiti, folate, sussurri, tonfi, scricchiolii, sciacquottii, ronfi, brontolii... Poi d'un tratto una grande vampata sulla cresta dei monti e dalle nubi infuocate ecco irrompere Febo colla quadriga del sole preceduto dall'Aurora e dalla Rugiada.


Baldo, uno spettacolo simile non l'aveva mai veduto. Adusato al lavoro assillante, sempre curvo al suolo intento alle patate ed ai pomidori, non aveva mai avuto modo d'apprezzare dovutamente il fenomeno grandioso. Preso da grande emozione si guardò il palmo delle mani che parevano un Sahara in bassorilievo. "Maledizione!" imprecò.


Col passare delle ore si sentì invadere dalla stanchezza. Il suono delle campane di mezzogiorno gli giunse all'orecchio attutito, ovattato dalla distanza. D'un tratto lo prese un senso di gravezza e di noia. Il pentimento vero e proprio lo raggiunse all'improvviso dandogli al cuore un tuffo molesto. "Per la Madonna, che idea balzana!" Si sedette sopra un tronco d'albero abbattuto e meditò. "Perbacco! Ora me ne ritorno a casa come un fesso... M'ho lavato il collo per niente." E improvviso un pensiero di tutt'altra natura, un pensiero strano, espresso in una bassa esclamazione astiosa: "Ah, se possedessi un milione!" Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si prese il volto tra le mani e si mise ad osservare le formiche ai suoi piedi. "Allora sì che farei ballare l'orso!.."


Le laboriose bestiole trasportavano grossi carichi, pesi più del loro corpicino, in un va e vieni disciplinato, instancabile. Ecco una che viene avanti con un carico enorme, spropositato. Si vede ben chiaro lo sforzo che fa per riuscire nell'intento. D'un tratto, nello scendere un valloncello, incespica e cade. Dev'essersi fatta male perché non accenna a rimettersi in piedi. Ecco un'altra formica allora, che si stacca dalla lunga teoria di quelle che tornano e s'avvicina all'infortunata. "Che t'è successo, sorellina?"" le chiede premurosamente. "Ohi! ohi! ohi!" risponde quell'altra: "La gamba, la gamba..." E col capo accenna ad una delle sue zampine che appare assai malconcia.. "Perbacco!" esclama il sopraggiunto, poiché era un maschiotto: "Una storta." E afferrata senza tanti ambagi la gamba malata si mette a massaggiare energicamente. "Ohi! ohi! ohi!" grida più forte la malcapitata. "Ora vai all'infermeria" le dice quindi il galante cavaliere. "Non preoccuparti del carico, che a quello ci penso io. E digli al dottore che guai a lui se ti taglia la gamba. Io sono Marco Vinicio." La prima formica s'allontana zoppicando. "Ehi! ehi!" la richiama quell'altro d'un tratto:"Com'è il tuo nome, vaga donzella?" "Frù-frù" risponde quella facendosi rossa come un carbonchio. "Schiava?" "No, libertina." Marco Vinicio si mette a considerare cogitabondo il grosso carico riverso sul sentierino. "Che razza di pesi!" brontola.

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Baldo non aveva udito nessun rumore di passi, né altro che potesse giustificare la presenza di quei piedi proprio là sotto i suoi occhi. Erano scarpe all'antica quelle, sormontate da grosse lucide fibbie d'argento. Il misterioso personaggio vestiva alla foggia di cent'anni prima. Un ampio mantello nero, malgrado la stagione, lo copriva dalle spalle ai piedi. Il suo volto era pallido, angoloso e duro, ravvivato da occhi nerissimi sormontati da cupe e folte sopracciglia. Era alto, massiccio, e sotto il mantello s'indovinavano le braccia incrociate sul petto.


Baldo lo guardava stupito e sgomento.


"Il diporto di contar le formicole non è per te, amico" fece l'ignoto personaggio. Aveva una voce strana, profonda, dalle tonalità metalliche.


Baldo rimaneva muto ed interdetto. "No, non ti si addice. E' grottesco, puerile. Ho di meglio per te, di meglio assai."


"Ma ... tu... chi sei?!" azzardò Baldo con voce alterata.


Il sinistro messere abbozzò un brutto sogghigno: "Tu l'hai già intuito, amico." disse.


Baldo sbarrò tanto d'occhi e dischiuse la bocca in una muta angosciata interrogazione.


"Si" fece quell'altro: "Si, son proprio io!"


Baldo tentò istintivamente un gesto di croce, ma Satana gli afferrò rapido il braccio.


"Via, via!... Non facciamo scherzi. Prima di tutto ragioniamo. Se permetti, mi siedo accanto a te. " E senz'altri complimenti si sedette. Poi disse di nuovo: "T'ho detto ch'ho di meglio per te..."


"Ma alfine, che significa?" fece Baldo vivamente.


"Significa..." rispose il Diavolo: "Ecco quello che significa." E levata la mano da sotto il mantello, soffregò dolcemente il pollice contro l'indice e il medio in un gesto inequivocabile. "Pecunia, amico mio, pecunia. Ecce quid quinquinorum pecunia omnia regina mundi..."


"Oh!" fece Baldo al suon del diabolico latino: "Come il nostro parroco. Alle volte..."


"Il vostro parroco..." lo interruppe Satana. Fui da lui proprio iersera. Mi piace la contrada. Molto cortese... Parlatore come ve ne son pochi. Un latino poi...Un Orazio Flacco."


"Noi, in paese, lo chiamiamo don Bortolo."

"Già, don Bortolo..." E s'interruppe mordicchiandosi con disapppunto il labbro carnoso. "Una noce dura, ma..." Quindi disse perentorio: " Sol che tu lo desideri, il denaro è pronto."


Un lieve ansito tradiva l'interna emozione di Baldo. Una mosca s'avvicinò al naso del Diavolo coll'evidente proposito di posarvisi. Satana detestava le mosche. Fece l'atto di acchiapparla al volo, ma il tentativo fallì.


Disse Baldo alfine:


"Tu dimostri dell'interessamento alle cose mie. Qual'è il motivo che ti spinge?"


Rispose il Diavolo evasivo: "La tua vita è grama, amico: Lavoro, fatica, sudiciume...Io posso farti ricco, potente.

Baldo respirava a fatica. Disse con voce tremula:


"Ma tu... da me... in cambio... cosa chiedi?


Il Diavolo sospirò profondamente e parve concentrarsi. Intanto la mosca (sempre quella imprudente di prima), eseguite alcune ampie volute a motori spenti, s'era cautamente posata sulla sua guancia mettendosi subito a fare i suoi porci bisogni. Il Diavolo, rigido come una statua, non batteva ciglio. D'un tratto nel profondo silenzio echeggiò il rumore sinistro d'uno schiaffo. Ma il tentativo eroico fallì miseramente anche questa volta. "Maledetta!" ruggì Satana seguendola poi nel suo volo collo sguardo malumorato. Indi, sempre tenendo sott'occhio la mosca che ora ronzava a pieni motori, rispose a Baldo:


"Non mi piacciono i negozi tirati troppo alla lunga. E' l'alma tua che m'interessa, ecco. Desidero d'acquistarla. Pago bene..."

Baldo, che una proposta di quel genere pur se l'aspettava, nel sentirsela formulare tanto crudamente, rimaneva senza respiro.


"No!" esclamò tutto alterato, sconvolto. "No! Vattene!... Questo baratto non si farà. Vattene!"


Il Diavolo sorrise gelido:


"Amico, nessuno ti obbliga..."


"Tu non hai potere alcuno su di me." proseguì Baldo con energia. "No, proprio nessun potere. Con un gesto solo io posso..."


"Tu non lo compirai quel gesto."


Baldo ansimava sordamente. Disse poi, con voce bassa, irrauchita, guardando il suolo come trasognato: "Questo negozio non si farà. No. Non le son cose, perbacco! da proporsi ad un cristiano bennato, timorato di..."


"Zzzzt! " lo interruppe il Diavolo corrugando il ciglio. "Non dire fesserie. Guarda." E da sotto il mantello levò un grosso pacco di biglietti di banca nuovi fiammanti. "Guarda: Un milione tondo tondo."


Baldo, che nella sua vita non aveva tenuto mai tra le sue dita un solo biglietto di quel taglio, si sentì venir meno e si premette ambe le mani contro il cuore in tumulto.


"No!" esclamò alfine: "No... vattene."


"Amico," disse allora il Diavolo: "Non ti posso obbligare; ma pensa: Sei giovane... Pensa ad una vita tutta soffusa di delizie. Non più tribolazioni, non più lavoro ignobile, avvilente. Avrai chi ti serve; sarai amato, rispettato, vezzeggiato: Tutti a gara per farti cosa gradita."


"No!" fece ancora Baldo: "No!"


Il Diavolo si rimetté il pacco dei biglietti sotto il mantello. "Ho dell'altro da fare," disse. "Come t'aggrada," e si alzò ."Ma avrai da pentirtene, amico, ricordati. Lavoro, fatica, sudiciume..." Strimpellò colle dita un ironico cenno di saluto. "Me ne vò."


Baldo lo sogguardava con l'occhio vitreo d'allucinato.


"Addio!" fece il Diavolo e s'avviò.


Baldo emise un ringhio sordo. Con un balzo lo raggiunse e l'agguantò strettamente del mantello.


"Caccia il denaro e vattene, maledetto!" rantolò.


Il Diavolo trasse di nuovo da sotto l'involto, che Baldo afferrò con rabbiosa cupidigia.


"Ora vattene! Vattene, maledetto!..."


Disse il Diavolo: "Contali."


"Mi fido. Vattene!"


Satana s'allontanò d'alcuni passi, poi si rivoltò e colla mano ripeté l'ironico saluto di poc'anzi. La mosca intanto gli andava ronzando nuovamente d'attorno. Il Diavolo la seguiva attento. Una fulminea zampata e Baldo lo vide ghignar bieco mentre si guardava il pugno attraverso le dita socchiuse. "Ora ti porto al caldo." mormorò. Si cacciò il pugno ben stretto nella tasca, quindi batté il terreno tre volte col tallone. La terra si colorò subito di rosso fuoco, una vampata, un sibilo straziante e lungo, e Satana sprofondò nel suo regno.


Baldo giacque al suolo a gemere, a contorcersi e a urlare di raccapriccio.

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Il calessino rotolava veloce sulla strada inghiaiata che menava al capoluogo dove c'era una banca. "Perbacco!" monologava Baldo: "Perbacco che avventura! Un milione!... C'è da impazzire... Ora è finita la schiavitù. Basta con Baldo. D'ora innanzi, Signor Ubaldo, per la Madonna!" A quel pensiero percepì quel senso di delizioso soffocamento che già conosciamo. "Ah! ah! ah!" rise forte, e frustò e rifrustò il cavalluccio che già filava come un diretto. Piombò come un Ajace sulla piazza del paese, che per fortuna in quell'ora meridiana non presentava concorso di popolo.

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Il cassiere della banca, giacca nera, pallido e coll'occhio smorto, andava esaminando con molta attenzione uno di quei biglietti. Guardò quindi il "Signor Ubaldo" che nell'inquadro dello sportello pareva un'allucinata creazione di van Gogh. A caso levò dal mucchio un altro biglietto, lo palpeggiò, lo guardò contro luce, poi guardò nuovamente Baldo che non fiatava. "Ma da chi diavolo avete avuto questi soldi?!" disse. "Eh?!... Come?!..." fece Baldo colpito da un atroce sospetto. Il cassiere seguitava a guardarlo coll'occhio improvvisamente ravvivato. I suoi pomelli apparivano coloriti da un tenue spruzzo sanguigno. "Ma questo è denaro falso, del tutto falso," disse ancora. Baldo s'accasciò con un rantolo.

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Quando Caronte se lo vide comparire davanti, "Ah, ah!" mormorò: "Eccolo qua." Lo prese del braccio e lo spinse nel branco: "Avanti, avanti manigoldi!"



Giuseppe Soravia "Capoto"



POESIA   "I l      s o g n o"


Una notte, improvviso e inaspettato,
m’ebbi un sogno lievissimo e soave,
blando e bello, che fecemi esclamar,
svegliato di sobbalzo: – Che bel sogno! –
e arrider tra le coltri, nello scuro.
Sognai di voi, fanciulla sconosciuta!

E nulla di più casto di quel sogno:
La tenue carezza delle mani,
il guardo triste delli occhi fondi.
Muta restava l’alma mia e lieta,
e avrei voluto non finisse mai.
Perché quel sogno dopo un lungo anno?

Visto v’avea una sera e rivolto
frasi fanciulle, sbadate, e goffe…
Ma quanto omaggio in quelli detti miei!
Non rispondeste, non diceste verbo;
non conosco il suon di vostra voce;
conosco gli occhi sol, la zazzeretta
di capelli sulla fronte, e la veste
verde e ondosa, e tenue pizzo al collo,
una mano sollevata e bianca,
al lucido sostegno di un tranvai…

Vi rincontrai ancora in sul cammino:
badaste al suolo e vi tiraste via;
altra ancora, e ravvisarvi parmi
in volto un vago lampo d’ironia;
ed una volta ancora… poi non più…
Che s’è fatto di voi fanciulla bella?
Bella?... Si ma non di troppo. Ma quale
mai effluvio emana d’esser vostro,
perché non vi dimenticassi più…

Tante altre visioni son disparse,
come bianca nebbiola al sol: Restaste
solo voi, vagamente triste nel
ricordo ultimo, ed una domanda
ne l’occhi neri luminosi e vispi:
-Ma che vorrà da me quest’imbecille?! –
E v’ho seduta sopra un trono d’oro,
e d’avorio, nulladimeno…. Sì…
E schiave, che agitan ventagli,
e popolo che inchina e grida : – Viva! –

E amerei tanto, sì, di rivedervi…
Ma di conoscervi non voglio. Temo…
Timore ho che il bel castello fatuo,
non mi rovini giù in un turbinar
di delusione, e non rimanga più
ch’amarezza e vuoto nell’alma mia…
E tanti e tanti dì m’accompagnò
il piacer dolce di quel sogno.
E niun dirà, quanto il cuor mio provò.

Giuseppe Soravia "Capoto"




NUOVO BLOG DI GIANCARLO SORAVIA

Gentili lettori ,    sono lieto di annunciare l’apertura del mio nuovo Blog intitolato:   “Raccolta Articoli di Giancarlo Soravia sulla Dife...